di Giuliano Menato
«Tanto più possederemo di realtà
quanto più avremo creato di poesia»
Novalis
“Dare corpo e anima alle cose” è il senso che illumina il lavoro fabbrile di Gibo Perlotto nella sua azione di progettare e di eseguire l’opera, nella sua disposizione a gioire e a soffrire con essa. Molte delle attuali tendenze della sperimentazione artistica offrono informazioni che non sono informazioni ma soltanto la loro simulazione; propongono forme ludiche che non hanno nulla del gioco ma sono soltanto simulazione del gioco; producono oggetti che non sono oggetti ma soltanto parvenze o labile documentazione di spettacoli paradossali; esaltano processi operativi che non sono operazioni ma soltanto un rituale gestuale, segnico. L’opera scultorea di Perlotto sta a testimoniare una linea in controtendenza dell’arte contemporanea perché recupera quei valori etici ed estetici considerati perduti come le tradizioni artigianali e le radici regionali dove si coniuga cultura rurale ed eleganza popolare, orgoglio per la propria storia e apertura ad uno stile più aderente alla propria sensibilità. Dopo l’affermazione del lessico informale e la diffusione esponenziale dell’arte concettuale, l’artista vicentino valorizza l’impiego di tecniche e di materiali più tradizionalmente identificati con l’artigianato artistico nella realizzazione non solo di oggetti ma di composizioni complesse e di interventi installativi. Usa il ferro, medium privilegiato da un agguerrito gruppo di artisti italiani – si pensi ai veneti Murer e Benetton – che in questo materiale riconoscono un mezzo espressivo di grande versatilità e comunicativa. Altri artisti in questi ultimi anni hanno intessuto il lavoro di invenzione artistica con l’esperienza tecnico-materica delle arti decorative, ad ulteriore dimostrazione di un gap superato e di una visione non più idealistica o squisitamente concettuale dell’arte contemporanea, ma, al contrario, di una ricerca condotta attraverso materiali e tecniche che hanno ritrovato un loro senso compiuto. Il prodotto artistico che Perlotto ci consegna, frutto del suo ingegno, ha nell’oggetto l’elemento fondamentale della rappresentazione. Non è semplice mimesi, cioè imita ione della realtà o cosa che acquista valore a seguito di un’operazione della mente. Realismo per Perlotto non significa accettare passivamente la realtà, ma problematizzarla, affrontare lo scontro con l’altro da noi, sapendo che nell’urto si scopre la verità. Chi esamina le sue opere nella varietà delle loro articolazioni, capisce che appartengono ad un processo creativo che non si esaurisce nella poetica del bello naturale, anzi, il bello artistico prevale laddove la mimesi come nelle Crepe cede il posto all’invenzione. Quando la problematica dell’arte si spinge più vicino alla problematica del progetto, tutto si scioglie nell’espressività della forma. E l’opera diventa un valore assoluto, disgiunto dai termini bassi e volgari con cui nella contingenza mondana si designa il valore. Le sue sculture riescono, tuttavia, a scuotere il corpo insensibile del pubblico, a risvegliarlo, a stimolarlo. E a verificare se esiste ancora un barlume di vitalità. L’opera di Perlotto recupera la dimensione dell’artistico e dell’estetico attraverso il piacere dell’identificazione profonda e durevole.