di Giovanna Grossato
Essere un magister faber nell’antichità voleva dire saper fare qualcosa in modo così bene da poterlo insegnare ad altri: agli allievi di bottega, nel caso di un artigiano o di un artista (che poi identificavano il medesimo ruolo). Il termine “maestro” in latino ha la stessa radice di mag-is e mag-num, cioè grande; esperto e dotto in una scienza, in un’arte o in un mestiere. Significa, dunque, per estensione, anche “insegnante”. Tant’è che la parola è la traduzione palmare dell’ebraico “rabi” (grande) da cui deriva “rabbino”, l’epiteto con cui veniva appellato Gesù, il maestro per eccellenza.
A Milano, nella chiesa di S. Ambrogio, vi è un altare d’oro di epoca carolingia eseguito nel IX secolo da un artigiano di nome Vuolvinius. Si tratta di una cassa in legno contenente reliquie di santi e rivestita in tutte e quattro le facce di lamine di metallo prezioso lavorate a sbalzo. Vi si descrivono scene della vita di Cristo, alcuni simboli sacri. In una delle formelle – evento ancora non frequentissimo per quel tempo – appare anche il ritratto del committente del manufatto: il vescovo Angilberto II nell’atto di essere incoronato da S. Ambrogio. Ma il fatto assolutamente inconsueto è che nella formella accanto a questa, specularmente e allo stesso grado di importanza e di grandezza, vi si trova rappresentato ancora S. Ambrogio nell’atto di incoronare l’autore del lavoro, Vuolvinius, che si firma, orgogliosamente, “magister phaber”.
Mettere la propria capacità tecnica e manuale al servizio dell’idea, del pensiero, della fede, fu per tutto il corso della storia antica fino al il Medioevo un modo di pregare, di ricongiungersi a Dio attraverso un’abilità riconoscibile come “dono” di Dio stesso. Ma si trattava di un’attività che rimaneva per lo più anonima in quanto opera collettiva e di bottega. Questa impennata di fierezza di Vuolvinius, che palesa il potente desiderio dell’autore che il suo lavoro venga riconosciuto e ricordato come tale appare, nella Milano altomedievale, del tutto inedita e precocemente moderna.
Ebbene, qui, forse si colloca il punto di connessione tra l’antico faber e un artista contemporaneo come Gibo Perlotto. Qui trovano sintesi la capacità di maneggiare la materia con strategie esecutive apprese nel corso di un praticantato familiare di bottega che vanta l’esperienza (e la connessione culturale) di diverse generazioni e lo spirito tutto attuale dell’elaborazione di un vissuto personale proiettato sulla propria storia.
Nei lavori di Perlotto convivono la forza dell’aver saputo preservare e sviluppare un’habilitas artigiana dalle radici profonde e preziose, la sensibilità moderna nel servirsi di quella tecnica per tradurre in ferro le forme di un pensiero attuale e, infine, la capacità di farne un racconto senza tempo che appartiene all’anima universale delle cose e delle riflessioni sul sé.
La tenace volontà narrativa del linguaggio di Perlotto ha tutta la freschezza e lo stupore di cui si fanno tramite oggetti di normale umanità, anche i più semplici, umili e danneggiati dal tempo, dai naturali processi di decadimento e dall’abbandono. Anche gli elementi della natura sono protagonisti del racconto dell’artista: essi fanno specifico riferimento ad un ambiente contadino certamente desueto ma la cui memoria non si è ancora spenta. Né tantomeno si sono spenti per l’artista i significati e i valori di cui essi si fanno testimoni e portatori. Libri o suppellettili domestiche del mondo rurale in via di estinzione eppure ancora vivo e portatore di senso: verze reali e materne fragranti d’orto; piccoli sorci e ragni che prendono il sopravvento sul tempo dell’uomo; indumenti quotidiani; scale e vecchie corde di canapa dalla pregnanza simbolica; poveri tavolini che reggono inconsapevoli simboli di vizi e di virtù. Oggetti che, pur senza perdere mai la loro principale funzione di attori fisici dalle forme riconoscibili e connotate, sono tuttavia in grado di fare da ponte verso una dimensione “altra”.
Protagonisti di questa mostra allocata nello straordinario spazio della sagrestia dei Frari (“un’esposizione collettiva assieme a Giovanni Bellini, Donatello, Tiziano, Paolo Veneziano, Alvise Vivarini…“, come afferma con bonaria autoironia lo stesso Gibo Perlotto), le 15 opere riunite dal curatore Alessandro Ghiotto con il titolo “Elévami” rappresentano lemmi, aggettivi e verbi di un metalinguaggio polisemico che ha come interlocutori sia ammirati visitatori, stupiti dalla precisione della trasposizione del reale in materiale quasi eterno come il ferro, sia cultori dell’arte che possono apprezzare attraverso questi lavori di Perlotto “l’insostenibile leggerezza dell’essere” di una sostanza così “pesante”. Per dirla con Kundera questi lavori sono il tentativo di fissare l’unicità dell’esistenza, (Einmal ist Keinmal, ciò che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto): un affascinante e inconciliabile (insostenibile) paradosso tra la sfuggente evanescenza della vita e la necessità umana di rintracciare in essa un significato e una sorgente perenne.