di Antonio Carradore
Forse mai come in questo caso titolo e concetti convergono e si rincorrono a vicenda nel tentativo di considerare l’opera di Gibo Perlotto. O meglio, la sua visione di pensiero. Di una fragilità ferrea e compatta nella sua sete di umanità. Un’umanità costruita sull’onda dei sentimenti sani e della genuinità di un teatro di ricordi (ancora una volta) materico e talora greve nella sua brama di denuncia. Perlotto arriva infatti a un grado di provocazione spinto quasi al limite della rottura e del grido di denuncia, eppure dolce nel suo mormorarsi e svelarsi a quanti ne colgano e sviluppino le schegge – rese in pillole – di saggezza. Popolare quest’ultima – “contadina” si è detto in altre occasioni – e proprio per questo Culturale – anche nel senso di “Coltura” (da cui in fondo deriva).
Materia e memoria diventano così fra le mani di Gibo Perlotto segmenti equivalenti e irrinunciabili di un unico percorso infinitamente lungo nella sua bruciante rapidità di esaurirsi e rinnovarsi ogni volta con mirabile stupore. Dell’artista e soprattutto nostro, nell’andare coi pensieri ai sensi che ogni esperienza estetica schiude oltre i limiti del suo demiurgo. Capace di superarsi e sovrastare confondendosi nel senso pratico e funzionale che Libro e Cultura fanno esplodere. Perché la memoria stessa è concreta oltre il sogno, così come i libri di Perlotto che idealmente si aprono e ci aprono al mondo nel mondo.