di Dario Vivian
“Se un libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli nel cranio, perché dunque lo leggiamo? Un libro dev’essere una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi” (Kafka). Questa frase mi risuonava dentro – anzi, come dice Kafka, proprio mi martellava – mano a mano che mi sono immerso nella visione dei singolari libri dell’amico Gilberto Perlotto. Si tratta infatti di opere che si offrono a tutti – grandi e piccoli – con una comprensibilità a prima vista immediata, eppure non lasciano tranquilli. Del resto, in un mondo di indifferenza quale rischia di essere il nostro, abbiamo la necessità di rimanere tranquilli o non piuttosto di essere scossi dal torpore così funzionale ad una società, che ci vorrebbe consumatori innocui e recettori passivi? Afferma ancora Kafka, con parole persino estreme: “Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio”. I libri in questione, apparentemente non così urtanti come le frasi del grande scrittore, vanno tuttavia nella direzione di un esigente esame di coscienza. Ritengo infatti che la proposta di Perlotto costituisca una vera e propria meditazione laica, volta a misurare noi stessi con l’intreccio complesso del tempo nelle sue molteplici dimensioni: di passato, in cui affondano le radici, di presente, che rischia di smarrirle, di futuro per alcuni versi angosciante e per altri gravido di speranze. Il libro in sé e questi in particolare ne costituiscono come la sintesi, ma appunto in chiave interrogativa più che risolutiva. Ce lo ricorda anche il disincantato Qoelet, saggio ebreo alle prese con l’apparente non senso della vita, consegnandoci un libro tra i più aspri di tutti i tempi e tuttavia custodito nelle Scritture considerate sacre da chi crede: “Le parole dei sapienti sono come punte acuminate e come chiodi conficcati” (Qo 12,11). Il percorso suggerito dall’artista si snoda infatti tra libri inchiodati, legati, compressi, rovesciati, violentati dal filo spinato e abbandonati alle ragnatele, immersi nel cemento e divorati dai topi; eppure da essi emergono pagine d’oro con frasi pensose, quasi a intravedere squarci di risurrezione più potenti di ogni morte.
Chi è degno di aprire il libro?
I libri di Gilberto sono libri chiusi, o perché nessuno li apre o addirittura perché ne viene impedita l’apertura; si presentano legati da corde, avvolti dal filo spinato, chiusi da lucchetti, trapassati da bulloni, conficcati da chiodi. E’ vero, vi può essere una corona del rosario abbandonata sopra, ma non sai se si tratti di religiosità viva o di devozione stantia; un ramo gemmato vi si avvolge, allusione forse alla speranza eppure insieme segno di volumi lasciati là da tempo; il calamaio rovesciato li sporca con l’inchiostro dell’infanzia scolastica oramai perduta, tuttavia basta una cannuccia con pennino per immaginare parole scritte e riscritte per imparare a comunicare. La provocazione di questi libri chiusi mi rinvia ad una potente pagina dell’Apocalisse: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli? Io piangevo molto, perché non fu trovato nessuno degno di aprire il libro” (Ap 5,1-4). Da una parte, ritengo che la riflessione proposta da Perlotto con le sue opere possa essere interpretata come un pianto sommesso; su libri chiusi, cioè su speranze tradite, valori dismessi, libertà represse, relazioni mercificate, tradizioni abbandonate, vite stroncate. C’è una vena di pessimismo – o almeno io la colgo o forse la proietto – in questo affiancare libri a libri, tutti chiusi, quasi perdendosi tra gli scaffali di una biblioteca dove non si respira più se non polvere e non si vede la luce del sole. Chi ha voglia ancora di aprirli, questi libri? Si troverà qualcuno oppure bisognerà rassegnarsi a far rimanere definitivamente chiuse pagine che hanno generato cultura, nutrito intelligenze, illuminato spiriti? D’altra parte l’artista li forgia non con rassegnazione, li offre a noi proprio perché ce ne prendiamo cura, li pone là come invocazione muta eppure eloquente di una memoria chiamata a farsi profezia, di un possibile futuro che non può non avere un cuore antico. Già si è detto che la chiave di speranza viene a galla nonostante tutto, come testimoniano gli strappi dorati attraverso cui emergono parole dense alle quali aggrapparsi, messaggi preziosi di cui nutrirsi.
Prendi e mangia!
Appunto al nutrimento – che cos’è la cultura, se non cibo per l’anima? – rinvia un altro passo dell’Apocalisse, che mi viene da accostare alle opere di Gilberto: “La voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: Va’, prendi il libro dalla mano dell’angelo. Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come miele. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza” (Ap 10,8-10). Non so se il nostro artista abbia compiuto l’identico gesto del profeta, ma verrebbe da dire di sì contemplando la sua opera. L’amarezza patita fin nelle viscere è testimoniata dal disincanto con il quale questi libri tratteggiano almeno in parte il fallimento di un umanesimo, al quale rinviano ma insieme denunciano come abbandonato se non rigettato. Sono testimoni muti di una contemporaneità, che troppo spesso non ha né tempo né voglia di ritessere i fili di una sapienza fatta di silenzio, ascolto, rispetto, gratuità, riflessione, contemplazione. La denuncia più forte di ciò è probabilmente la memoria di Primo Levi, che a partire dal numero di internato nel campo di concentramento interroga tutti noi: Se questo è un uomo… Orrore, non solo amarezza. Quante pagine di storia contemporanea, a partire dalla tragica icona di Auschwitz, hanno violentato il libro della nostra comune vicenda, disumanizzandola. Eppure questi stessi libri non rinunciano a comunicarci la dolcezza del miele, evocata dall’ape dorata che si posa suggerendo l’idea di un possibile nutrimento da ricavarvi. L’oro irrompe, nonostante tutto, perché non è possibile calpestare e degradare del tutto quanto viene dalla mente, dal cuore, dallo spirito dell’essere umano. Se un libro, per la forza delle parole, dilata ed espande l’energia intellettuale e morale che vi è racchiusa fino a scardinare la morsa di ferro che lo racchiude, allora c’è ancora speranza. Non a caso l’itinerario meditativo di Perlotto attraverso i libri si chiude con il calamaio dedicato a Mario Rigoni Stern, dove ritorna l’ape, l’oro, la doratura che richiama la dolcezza del miele. Finché qualcuno è capace di regalarci racconti dell’anima, così umani, intensi e veri da farci aprire il libro per nutrircene, il cammino della storia avanza verso un orizzonte aperto e un raggio di sole taglia le nubi fosche ad indicarci la direzione.