BIANCO ALTROVE

(Omaggio a Lucio Fontana)
di Giorgio Rigotto

Gibo mi ha parlato a lungo del rosso di quest’opera. Io lo ascoltavo, al telefono, appoggiato a un acero, poi seduto sulla fontana, poi sulla panca di cemento in un peregrinare quasi mistico in giardino, mentre il pittosporo aspettava la potatura. È questo uno dei tanti incontri con quest’opera che ho “visto” prima forgiata a parole e poi su schizzi e poi completata nel suo fulgore lacerato, ma quieto. Dev’esserci qualcosa in me che l’età fissa e completa a modo suo. Guardo la tela del “risentimento” scomparso. La rabbia è sparita. Il rosso mi suggerisce passione, un respiro profondo, un’aspirazione. I tagli sono come labbra dischiuse. Mi parleranno? Giro attorno all’opera ed entro in un altro mondo, dove il bianco è intatto. Ho l’umiltà di farlo e da lì ascolto il respiro della lacerazione e il suo canto da labbra aperte appena. Rapito, vivo il racconto della tela generato da un’azione compiuta nella solitudine di un gesto che ha il rumore di un fruscio che schiude verso l’altrove con un taglio che non è squarcio né ferita ma varco aperto su possibilità diverse, mondi nuovi, invenzioni inattese della mente, cordigliera di pensieri, rosari non recitati. Un vuoto da colmare. Un nulla da riempire. E quel gesto costruttore di emozioni vaga ancora nell’aria di questa adesso silenziosa officina. E sono accanto ad un Gibo bambino stremato da un gioco che illumina e scombina. “Vieni, Gibo, sei stanco, anche di pensare a tutto questo. Vieni siediti qui vicino a me che potrei essere tuo padre, e respira lento. Riposa. Ascolta anche tu il canto di quelle labbra incise. Dormi, sogna tele intatte.”